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sabato 2 febbraio 2013

La testimonianza di Lia Levi

Da "Una bambina e basta" a "La notte dell'oblio", la scrittrice ci racconta la sua storia


Per dare degna conclusione alle nostre riflessioni sul Giorno della Memoria, dopo aver raccolto alcune importanti testimonianze delle seconde generazioni, ci è sembrato doveroso ascoltare chi della Shoah ha avuto esperienza diretta.
Nel corso di un incontro con le scuole presso la Biblioteca Casa del Parco, abbiamo così avuto l'onore di parlare con Lia Levi, una delle più interessanti scrittrici del nostro attuale panorama letterario, che al tempo delle persecuzioni razziali era una bambina di dodici anni, scampata ai rastrellamenti grazie alla prontezza della madre che la nascose insieme alle sorelle in un convento. Di quel periodo Lia Levi ha lasciato traccia in buona parte della sua produzione, per questo abbiamo scelto di parlarne con lei attingendo spunti dalle sue stesse opere.

"La notte dell'oblio" tratta del silenzio calato per lungo tempo sulla Shoah. Il fatto che lei abbia raccontato quei terribili anni in molti dei suoi libri - su tutti citiamo la "Trilogia della memoria" - è motivabile anche con l'esigenza di trovare un pubblico riscatto dopo tanto "oblio" o è stata un'urgenza puramente personale?
Non è stato per avere un riscatto, anche perché io non sono una sopravvissuta ai campi di sterminio, né ho mai visto rifiutato un mio libro sull'argomento, dato che ho cominciato a scriverne tardi.
Come tanti altri ho sentito e vissuto lo spirito del tempo, caratterizzato inizialmente da una mancanza di volontà di raccontare quel che era accaduto. Per anni quindi ho tenuto tutto dentro, finché non l'ho tirato fuori quasi senza rendermene conto, quando ho avvertito che i tempi erano maturi. Per una fortuita coincidenza quel momento - all'inizio degli anni '90 - è collimato con la predisposizione della società a recepire quanto avvenuto.

Lei ha detto che non si vide mai rifiutato un libro sull'argomento, come al contrario accadde a Primo Levi. Ha invece provato come lui - sebbene le vostre esperienze siano state molto diverse - quel senso di colpa proprio di alcuni sopravvissuti?
Sì. Uno dei motivi per cui non ho scritto un libro prima è stato anche per i sensi di colpa e di vergogna provati, o per meglio dire a causa del disagio derivatomi dall'essere scampata alle retate e dall'essere portatrice di una storia di sofferenza minore, avendo io vissuto un'infanzia difficile, ma non tragica come quella di Primo Levi. Perciò ho atteso che si attenuasse in me questa percezione.

Mentre il suo libro d'esordio "Una bambina e basta" è un racconto dichiaratamente autobiografico, non si può dire altrettanto del suo ultimo romanzo "La notte dell'oblio". Tuttavia i punti in comune tra i due sono diversi. Quanto c'è quindi di autobiografico nel secondo?
Sono autobiografici tutti i fatti per così dire esterni, ossia gli studi effettuati dalla protagonista, l'ambiente universitario da lei frequentato, i primi lavori eseguiti, la comunità ebraica, il circolo del cinema. Di certo il suo modo di sentire non mi rispecchia, né mi riconosco nell'amore da lei provato per il figlio di una spia.

A proposito di ciò, "La notte dell'oblio" tratta anche delle delazioni che caratterizzarono gli anni delle persecuzioni nazifasciste e di cui è vittima pure il padre della protagonista. Lei ne ha avuto esperienza diretta?
Una volta accadde che a casa mia telefonò uno sconosciuto, il quale chiese notizie della mia famiglia dicendo di essere un nostro parente. Con buona probabilità si trattava di un delatore, ma fortunatamente la donna di servizio che gli rispose, sospettando chi fosse, non gli rivelò nulla.
Poi, pur non avendolo vissuto in prima persona, c'è un episodio raccontato in "Una bambina e basta" che è basato su una storia realmente accaduta di cui venni a conoscenza. Mi riferisco a una famiglia che si volle riunire per un giorno solo nella propria casa in occasione della Pasqua ebraica, non immaginando di essere stata denunciata ai tedeschi dai propri vicini di casa. Questo fatto ci sconvolse profondamente. Purtroppo non fu l'unico, perché, come numerose sono state le persone che diedero soccorso agli ebrei, cospicuo è stato anche il numero dei delatori che per cinquemila lire vendettero i propri conoscenti ai nazifascisti.

Con "Una bambina è basta" lei ha casualmente scoperto la sua propensione a farsi comprendere anche dai giovanissimi, tanto che da quel momento numerosi sono stati i libri a loro dedicati. A suo avviso qual è il giusto approccio per trattare di tematiche così delicate e complesse, come il genocidio degli ebrei, con un pubblico di ragazzi?
In effetti "Una bambina e basta" nelle mie intenzioni originarie era destinato a un pubblico di adulti, quindi per me è stata una grande sorpresa la ricezione positiva da parte dei ragazzi. Successivamente, invece, ho iniziato a scrivere rivolgendomi proprio a loro e da quel momento la formula adottata è stata sempre la stessa. In ogni libro ho cercato di immedesimarsi in personaggi giovani, raccontando la storia dal loro punto di vista e con il loro modo di sentire. Per far ciò bisogna riscoprirsi bambini.

Nel romanzo "L'albergo della magnolia" ha narrato il tormentato amore di un giovane e modesto professore ebreo per una facoltosa donna ariana. Da cosa si è originata questa storia giocata tutta sull'attrazione per l'opposto?
Volevo arrivare a parlare di una discutibile pratica abbastanza frequente in tempo di guerra, ossia l'usanza di qualche donna non ebrea, che, per salvare il proprio figlio avuto legittimamente con il marito ebreo, preferiva negare la vera paternità, dichiarando di averlo concepito al di fuori del matrimonio. Su questo fatto reale ho poi costruito una storia più romanzata, aggiungendo il tema della logorante attrazione per l'opposto e del compromesso portato alle sue estreme conseguenze.

In "L'amore mio non può" vi è la figura di una madre che si adopera per proteggere sua figlia a seguito della promulgazione delle leggi razziali e che sarà poi costretta a subire pesanti umiliazioni prestando servizio presso una famiglia di ricchi ebrei. Perché ha scelto di raccontare una storia segnata dalla mancanza di solidarietà tra persone accomunate dallo stesso credo religioso?
Perché la realtà non è mai come la si immagina. Non è vero che le vittime sono tutte buone, come la maggior parte delle persone è portata a credere. Con questo libro ho scelto di andare contro ogni retorica, mostrando la verità dei fatti: non tutti gli ebrei si sono aiutati tra loro. Per questo sono contraria a una visione schematica degli eventi. Io voglio raccontare la complessità della vita, non banalizzarla nel tentativo di semplificarla.

Per finire, nello scrivere i suoi romanzi sulla Shoah c'è stato un filo rosso che l'ha guidata oppure ogni libro è nato da un differente stimolo?
Ogni mia storia ha avuto origine da una diversa ispirazione. Mi sono sempre servita dello stesso sfondo, ambientando i fatti nel medesimo periodo storico che mi premeva raccontare. Tuttavia di volta in volta ho adottato punti di vista e stimoli differenti, calandomi nei panni di personaggi dotati di proprie peculiarità.


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